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Conosciamo meglio il baritono Massimo Cavalletti

Massimo Cavalletti, giovanissimo, toscano doc, è uno dei baritoni più richiesti nei teatri di tutto il mondo riscuotendo successi di pubblico e di critica. L’abbiamo incontrato durante il suo debutto al Teatro dell’Opera di Roma nella Bohème.

Il tuo primissimo approccio all’opera lirica.

Grafica Divina

Si va indietro di venti anni quando cantavo nella chiesa di Sant’Anna a Lucca dove mi hanno sentito e il prete della parrocchia mi presentò al Maestro Massimo Morelli. Sinceramente io non avevo idea che la lirica fosse contemplabile come lavoro, invece poi è entrata in me profondamente come mondo e si è manifestata ovunque, in ogni situazione, movimento, idea. Nel ‘98 ho incontrato il maestro Graziano Polidori con cui ho cominciato lo studio facendolo in modo così importante e serio che sono rimasto con lui fino a quando non sono entrato all’Accademia della Scala. Per molto tempo non ho capito che davvero la lirica avrebbe potuto darmi un futuro lavorativo perché non l’avevo mai ascoltata, non la conoscevo prima di incominciare a studiare. Fin da piccolo avevo studiato molto la musica classica; ero innamorato di Beethoven, della IX sinfonia e avevo un disco della VI che lo ascoltavo a giornate intere. Per mia madre era strano che un bambino fosse innamorato della musica classica. Ho studiato pianoforte, organo, ho cantato in chiesa, come dicevo prima, ed ora è questo il mio mondo al 100%.

Come nasce lo studio di un personaggio che devi debuttare.

Lo studio di un personaggio per me è fondamentale e parte da lontano. Come so che avrò un debutto, anche se magari tra due anni, inizio subito lo studio. Due mesi fa ho saputo che debutterò Masnadieri alla Scala di Milano per cui ho subito acquistato il libro di Schiller e contemporaneamente ho iniziato ad analizzare sullo spartito la dialettica verdiana relativa al mio personaggio. Cerco di entrare nel personaggio partendo dalle origini storiche, letterarie, il rapporto con gli altri personaggi e me ne faccio una mia personale interpretazione musicale e librettistica senza andare ad ascoltare registrazioni storiche. Nel caso appunto di Francesco lo vedo una specie di “Gobbo di Notre Dame”, sfortunato alla nascita con un fratello bellissimo e che percepisce la mancanza dell’affetto di un padre, di una donna vicino e questo lo porta alla ricerca di una rivalsa finale che in realtà sarà la sua distruzione. Per quanto non sia scritto nel libretto, secondo me, al termine della vicenda si toglie la vita perché i sogni finali che lo tormentano e lo portano ad una crisi che si sfoga con il duetto on il pastore Moser sono indicatvi del suo stato. Un personaggio che è una specie di proto Jago, un avanzamento di psicologia rispetto a precedenti personaggi verdiani di questo genere. Nello spartito già ci sono dei riferimenti musicali al futuro Rigoletto. Quando ho studiato Rodrigo mi son sempre rifatto anche in questo caso Schiller, alle motivazioni che Don Carlo ebbe all’interno dell’Europa nel periodo schilleriano, post Rivoluzione Francese dove Schiller ebbe la carica di Francese Onorario per il risalto dato all’uomo e all’annullamento delle gerarchie. La stessa cosa vale con Beaumarchais e Figaro perché se c’è alla base del libretto una letteratura io gli do grande importanza.

Poi ci sono quei personaggi che non hanno una tale radice e sono stereotipati nelle maschere che rappresentano come nell’opera buffa o semiseria e lì compenso di più con la relazione con gli altri personaggi. Marcello o uno Schaunard sono personaggi cresciuti in un divenire, in uno studio costante del personaggio che affrontavo in varie edizioni sempre passando dal romanzo di Murger. Sono convinto che la cosa più importante sia capire l’animo di questi personaggi e gli stati emozionali che scatenano perché è un linguaggio universale comprensibile ad ogni latitudine della Terra. Amore, gelosia, dolore, passione, innamoramento, morte sono sentiti da tutti nella stessa maniera che tu sia in Europa, America od Oriente. Lì è dove dobbiamo agire, far uscire questi sentimenti dal personaggio e trasmetterli al pubblico. Di recente ho fatto a Las Palmas il Barbiere di Siviglia con Levy Sekgapane nel ruolo del Conte di Almaviva che è un ragazzo giovanissimo, nuovo dell’ambiente. Ho interpretato Figaro con dei grandissimi interpreti accanto nel ruolo di Almaviva, ma con lui ho riscoperto questo ruolo perché gli dava una particolare grandezza di un personaggio spesso troppo portato al lato burlesco, scordandoci che era un Grande di Spagna, faceva parte di una delle famiglie più importanti e viveva alla corte di Madrid del Re di Spagna che fa cose particolari data la sua giovinezza (dallo scalare il balcone al travestirsi) però quando deve dimostrare chi è si capisce la sua forza, che è il cosiddetto uomo con gli attributi. Purtroppo a volte si prende lo spartito, si leggono le note e questo spesso si crede che basti.

Questo devo dire che lo fanno anche molti registi…

Sai il regista spesso prendono un’idea e la pongono al centro di tutto il lavoro soprattutto quando ci si vuole allontanare troppo dalla drammaturgia del libretto. Invece il bello di questi grandi come Verdi, Puccini, Donizetti, lo stesso Rossini e le grandi opere letterarie che ne stanno alla base erano tutti dei geni, dei grandi e vedevano all’interno di un libretto un grande sviluppo di tutti i personaggi, anche i più piccoli e questo li rende persone vere, che hanno caratteristiche e sentimenti che il pubblico deve sentire. Ho avuto la fortuna anche di lavorare con registi che conoscevano molto il teatro e questo ti aiuta tanto nel realizzare un personaggio come poteva essere una volta con Visconti o il primo Zeffirelli o Strehler stesso che faceva cinquant’anni fa regie di pura avanguardia.

L’annosa diatriba tra regia classica o moderna, per me risolvibile in regie belle o regie brutte, come è cambiata più che la visione, l’aspetto estetico, il modo di recitare l’opera lirica?

Parlo sinceramente nel dire che spesso oggi la figura che manca è proprio quella del regista. Abbiamo su piazza degli scenografi bravissimi, che sanno realizzare allestimenti spettacolari e portano idee notevoli nell’ambito della lirica magari avendo una provenienza cinematografica o di grandi eventi. Quindi abbiamo giochi di luci, scenografie, effetti speciali che vengono messi a disposizione di registi che spesso purtroppo non hanno la dialettica o l’esperienza per farci muovere all’interno di tutto ciò. Quando ho fatto La Bohème con Micheletto a Salisburgo non siamo partiti dalle prime note, abbiamo fatto una specie di master, di imprinting per diventare i personaggi che dovevamo essere secondo la sua concezione registica. Se prendi dei ragazzi che non hanno mai fatto un’opera e li piazzi sulla Luna o in un mondo lontanissimo da quello che è il contesto del libretto e li abbandoni, questi non riusciranno mai a creare un personaggio vero né seguendo le regole della recitazione di una volta o quelle odierne perché saranno o troppo molli come atteggiamento o troppo enfatici. Lo vedi subito uno che ha seguito un percorso o invece porta la propria esperienza e la incolla sulla messa in scena. I registi che fanno soprattutto traslitterazioni portando un’opera nell’epoca di Blade Runner dovrebbero prima fare un work in progress con i cantanti e dire come vogliono la recitazione o i movimenti o l’interpretazione. Allora in quel caso la regia moderna avrebbe tutto di moderno e non avresti un contrasto tra un allestimento odierno e una recitazione come poteva essere con Visconti. Le situazioni sono diverse, le luci sono diverse. Per me un errore è anche non dirci come sono le luci e questo si vede anche dalle riprese televisive o video o cinematografiche dove nemmeno ci viene comunicato quale è l’apparecchio che ci riprende.

Un personaggio che vorresti fare e uno che invece non vorresti.

Non so dove porterà la mia voce, spero che un giorno io possa interpretare Don Carlo di Vargas nella Forza del destino o Rigoletto. Qui faccio un piccolo inciso. All’epoca di Verdi ovviamente non si sapeva cosa fosse il baritono verdiano, perché non esisteva. Ecco bisognerebbe più basarci sulla tessitura scritta da Verdi (anche se si dice il diapason fosse diverso) che su altre cose quando si decide un ruolo da assegnare od eseguire. Se ascoltiamo Battistini o il primo Falstaff fatto da Maurel le loro voci erano chiarissime. Oggi si va a suonare in maniera ridondante l’orchestra, si cercano colori scuri, suoni bronzei quando Forza del Destino o Rigoletto sarebbero opere di grandissimo lirismo. Un sogno nel cassetto sarebbe fare Hamlet, opera poco rappresentata, ma che potrei fare forse quando sarò vecchio e potrò io chiedere quale ruolo interpretare. Uno dei più grandi personaggi shakespeariani che renderebbe felicissimo qualsiasi baritono abbia la fortuna di interpretarlo. Vorrei provare a cimentarmi anche con Wolfram di Eschenbach del Tannhäuser o Hans Sachs de I cantori di Norimberga. Certo ci vorrebbe una conoscenza del tedesco perfetta soprattutto perché Hans Sachs è il Falstaff wagneriano.

Personaggi che non voglio… più che questo direi che ci sono personaggi che amo come Falstaff, ma che ora non sento mio anche perché avendo cantato questa opera con un interprete come Maestri, ecco io non mi ci vedo a fare Falstaff come lo fa lui, nel suo modo perfetto di interpretarlo per cui continuo a ricoprire il ruolo di Ford. Scarpia è un altro di questi ruoli. Ha un’ampiezza vocale straordinaria anche se l’ho sentito fare anche da bassi… di sicuro non sarà mai per me la Francesca da Rimini di Zandonai o Tonio dei Pagliacci o Alfio della Cavalleria Rusticana. Non mi ci vedo in questi personaggi. Vedi già con Michele de Il tabarro, che è un personaggio negativo, il fatto che soffra per amore del figlio, della moglie lo rende di una grandezza particolare come i malvagi verdiani che hanno una grandezza musicale e psicologica mentre questi ultimi di cui parlavo son di una negatività terribile e di una vocalità non adatta a me. Si deve sapere quali sono i propri ruoli da interpretare per dare il meglio di noi.

 

Intervista e foto di: Luca Ramacciotti

 

 

 

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