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Conosciamo meglio… Michele Maino

Onnivori, carnivori contro vegani e vegetariani. Chi sostiene una categoria, chi motiva lo stile nutrizionale di un’altra. Sull’argomento ormai c’è molta confusione e prese di posizioni ferree. Per comprendere meglio le “ragioni” dei vegani abbiamo parlato con Michele Maino, chef, che ha fatto un ben preciso percorso di studio e di lavoro in questo ambito.

 

Grafica Divina

Qual è il tuo primo ricordo legato al mondo della cucina?

Ricordo molto fumo. Quando non ero che un bambino di 7 anni, a causa di una brutta influenza, una domenica mia madre aveva la febbre così alta che non poteva alzarsi dal letto. Io avevo molta fame. Mi disse: “Butta la pasta”. E la buttai. Ma senza l’acqua. Respirammo fumo puzzolente per ore. Grazie a questo episodio, non esattamente tra i più felici exploit culinari, imparai da subito sulla mia pelle l’importanza di istruire con chiarezza le maestranze.

 

Come hai deciso di intraprendere questo percorso di lavoro?

Nel 2007, Gabriele Mandel, allora mio psicanalista, mi suggerì di abbracciare l’alimentazione macrobiotica. Come per molti dei suoi consigli geniali, presi anche questo alla lettera e mi misi a studiare i testi di George Ohsawa (Nioichi Sakurazawa, padre di questa disciplina e importatore, in Occidente, dei principi alimentari dei monaci zen giapponesi). Visitai in Francia il guru dell’alimentazione del benessere René Levy ai cui insegnamenti si ispira anche il lavoro dell’oncologo Franco Berrino. Familiarizzai con specialità giapponesi, per me allora esotiche e curiose, come il mirin, le prugne umeboshi, i funghi shiitake, alimenti in grado di ribilanciare, secondo la macrobiotica, l’organismo, la mente e lo spirito affaticati da un’alimentazione dannosa. Sperimentai uno straordinario benessere fatto di equilibrio, centratura, tranquillità. Cominciai a organizzare per gli amici delle cene per condividere questa mia “scoperta”. E decisi che valeva la pena approfondire la ricerca e rendere questa cucina più accattivante e seducente per proporla a un pubblico meno ristretto. Lasciai la redazione per la quale lavoravo come giornalista e mi iscrissi alla scuola Le Cordon Bleu, a Parigi, dove conseguii il diploma di chef. Volevo spiare da dentro la cucina tradizionale della carne e del pesce per rubarne le tecniche e creare piatti di grande soddisfazione per l’avventore senza usare però prodotti di origine animale. Dopo alcune esperienze in ristoranti stellati, tra cui il fusion franco-thai parigino Ze Kitchen Galerie dello chef William Ledeuil, la mia passione, nel 2012 ho aperto a Milano con il mio socio Carlo Codarini, Osteria al 55, un’insegna rassicurante per un pubblico onnivoro, ma con una cucina esclusivamente vegetale, naturale, profumata e colorata, in grado di sedurre anche i palati più prevenuti.

 

La cucina oggi quanto si mangia con gli occhi e quanto con consapevolezza?

Nell’epoca dell’Homo videns, in cui, secondo il sociologo Giovanni Sartori, si è meno capaci di distinguere con l’intelletto il vero dal falso a vantaggio di uno scatenarsi dei sensi, vince certamente l’immagine, in particolare quella così accattivante da saper resistere alla furia della caducità mediatica e modaiola. Da un lato, l’approccio visivo è quindi imprescindibile per veicolare al grande pubblico nuovi valori alimentari. Dall’altro, una maggiore preoccupazione per la salute, che pur scaturisce dal tentativo del mercato di creare nicchie di consumo sempre più fidelizzate, sta effettivamente producendo nelle persone un desiderio di consapevolezza alimentare prima impensabile.

 

In televisione tutti cuochi, cosa ne pensi di questo fenomeno?

Prima o poi doveva accadere anche alla gastronomia, in un mondo dove “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”, per dirla con le parole del filosofo Guy Debord. Immagino possa essere divertente e forse anche istruttivo, per chi possiede un televisore, vedere un cuoco in scena o sentir nominare qualche ingrediente dal nome intrigante da poter spendere in un’occasione mondana. Trovo invece fastidiosa la brama per la competizione isterica, la volgarità e l’egocentrismo che accompagnano la cucina e i suoi protagonisti sullo schermo. Il cibo deve essere manipolato con amore da chi ha la responsabilità di prepararlo perché l’uomo diventa ciò che mangia: nelle società tradizionali, come quella giapponese o indiana, questo compito è infatti affidato a saggi maestri, bramini, sciamani. Quando questa bolla inevitabilmente si sgonfierà, resterà solo il viso di qualche cicisbeo in uniforme che occhieggia tra le corsie di un supermercato o stampigliato sulla confezione di qualche surgelato.

 

Quanto è cambiato il modo di mangiare in Italia negli ultimi anni?

Al food capita oggi esattamente ciò che è già accaduto alla moda. Si prende un prodotto artigianale, lo si trascina fuori dagli atelier e dai laboratori, lo si firma, brandizza e vende a maggior prezzo. I consumatori sono rassicurati dalla firma, dall’esclusività dell’autore. Questa cucina d’autore, come le grandi case di moda, nasce in Francia e l’Italia la importa, a volte con esiti lodevoli, come quello di valorizzarne la ricchissima varietà gastronomica regionale che nulla ha da invidiare alla Francia, al Giappone o alla Cina, e a volte con qualche sbavatura, come ad esempio l’abbassare un sistema di classifiche meritocratiche, come era la primigenia guida Michelin, a quel sostrato meno trasparente e un po’ feudale caratteristico del nostro Paese.

 

A tavola si dice che non si dovrebbe parlare di politica, religione o sport per non litigare, oggi si litiga sul tipo di cucina. Cosa ne pensi?

La condivisione del cibo è amore. La tavola ristora il corpo come l’anima. Non sono felice della piega bellicosa che sta prendendo il dibattito tra carnivori e vegani. E mentre alcuni soffiano su questo fuoco inconsapevoli delle conseguenze, Io cucino per unire. Chi divide, in effetti, compie l’azione del diavolo (dal greco διάβολος, colui che divide): un atteggiamento violento e pericoloso. Ciò detto, come sostiene l’amico Mauro Anzideo, chef vegano in Cina, l’unico futuro possibile è senza carne. Ed eccone i motivi: a) l’eccessivo consumo di carne e di latticini non è salutare, fa ammalare il corpo e ne impedisce la guarigione. Basti pensare al fenomeno della gotta che falcidiava le classi privilegiate dal medioevo alla fine dell’800. b) La popolazione umana è in costante aumento. La disponibilità di acqua potabile, al contrario, è in continua diminuzione. Per produrre un chilo di carne si consuma la stessa quantità di acqua (oltre 15.000 litri) necessaria per irrigare un campo che rende 86 kg di patate. I conti sono presto fatti: il modello dell’allevamento è insostenibile per l’ecosistema e suicidario per l’uomo. I vegetali soddisfano tutte le esigenze alimentari dell’uomo, la cui popolazione batterica intestinale, se in salute, gli fornisce anche la famigerata quota di vitamina B12. c) La violenza sugli animali non potrà nascondersi ancora a lungo dietro le spesse mura degli allevamenti industriali e dei macelli. Oggi, lentamente, cominciamo ad accorgerci della sofferenza dei nostri consimili e di quanto le scelte della nostra vita quotidiana possano aggravarla o alleviarla. Domani, anche i dolore di quegli innocenti alati o a quattro zampe, ci assorderà.

 

La tipologia di tuo cliente e quali sono i piatti che preferiscono?

Osteria al 55 è da 5 anni tra i primi 150 ristoranti di Milano su Tripadvisor, è recensita sulle migliori guide, amata dai critici più difficili come il misterioso Valerio Massimo Visintin del Corriere della Sera, e ritratta sulle riviste più prestigiose. I nostri clienti sono perlopiù onnivori, curiosi e di buona cultura. Apprezzano il nostro cibo come un’altro. Mi diverte a volte osservare la classica coppia di lei vegana e lui scettico uscire felici, soddisfatti e un po’ bevuti: una grande soddisfazione per me e la mia brigata. Il nostro menù è organizzato alla maniera classica italiana ed è ripartito in antipasti, primi, secondi e dessert e cambia ogni giorno. In carta abbiamo ogni sera almeno 30 varietà vegetali di stagione, dalle più comuni alle più inusitate. Io e il mio secondo, Fabio Mondino, creiamo i piatti e ne scegliamo i nomi come fossero titoli di un giornale: sta poi al personale di sala raccontare i piatti agli avventori con garbo e senza prolissità.

 

Un tuo consiglio per chi vuole affrontare il tuo mestiere?

“Non farti abbagliare dal giuoco televisivo: ricordati che lo chef, dopo il servizio, puzza di fritto, se va bene. E che, a meno di non avere un partner santo o ugualmente chef, difficilmente sarà felice in coppia”.

 

Intervista di: Luca Ramacciotti

Foto: Antonietta Corvetti

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