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Incontriamo Alessandro Agostinelli

Alessandro Agostinelli ha pubblicato vari libri tra cui i romanzi “La vita secca” (2002), “Benedetti da Parker” (2017), il diario di viaggio “Honolulu Baby” (2011), il saggio “David Lynch e il Grande Fratello” (2011) e, in Spagna, la raccolta poetica “En el rojo de Occidente” (2014). Scrive su L’Espresso e dirige il Festival del Viaggio. Ha lavorato a Radio 24, Radio RAI, Lonely Planet. Ha fondato alleo.it, magazine culturale online.

Il suo ultimo libro edito da Cairo Editore Benedetti da Parker è un romanzo appassionato dedicato a personaggi indementicabili del mondo del Jazz. Noi lo abbiamo incontrato per saperne qualcosa di più.

Grafica Divina

Dean Benedetti, Charlie Parker due uomini con un destino comune. Quando hai deciso di raccontare la loro storia?

Sì, il discepolo e il maestro in tutto e per tutto: musica, droga, monomania per il jazz. Sono due figure complementari, due facce della stessa medaglia – come si dice – che insieme diventano un “classico”, anche letterario.
Ho iniziato a conoscere questa storia più di venti anni fa. Poi, dopo averla sviscerata, l’ho lasciata lì a maturare. Ma sapevo già allora che la storia poteva essere raccontata soltanto con un romanzo, perché il romanzo ha una sapienza più profonda di qualsiasi altro genere letterario e può arrivare a parlare alle persone più intimamente di qualsiasi altra cosa.

Cosa ti ha mosso? L’come l’hai costruita?

L’ho costruita intervistando la maggior parte delle persone che avevano conosciuto e che avevano vissuto con Dean Benedetti, un italoamericano nato in Utah nel 1922, grande giocatore di basket e buon suonatore di tromba (passato poi al sassofono per amore prima di Lester Young e poi di Charlie Parker). Ci sono degli elementi in questa storia che la rendono paradigmatica non solo dell’ambiente musicale. E’ come un condensato di nobili sentimenti come la stima, lo spirito imitativo, la passione. Lo stimolo profondo è stato il fatto di essere riuscito a entrare dentro le pieghe della vita di Dean Bendetti attraverso fatti e racconti di parenti e amici e aver capito di poter inventare davvero la sua vita, come una esemplare pagina novecentesca.

Dall’America a Torre del lago Puccini un viaggio che portò a cosa?

Dean Benedetti viveva tra Los Angeles, Reno in Nevada e New York, in uno dei periodi più brillanti e fecondi della cultura musicale americana. Venne in Italia, nella provincia toscana del dopoguerra solo per far calmare un po’ le acque negli Stati Uniti, dove la polizia gli stava addosso per fatti di droga. In realtà non tornò mai in Usa, perché era malato e finì la sua esistenza a Torre del Lago. Era un alieno che piombò dal rutilante e sfavillante mondo del jazz in un paesino dimenticato da tutti. Il suo viaggio è un percorso verso la fine. Infatti la prima parte del romanzo, quella ambientata in America, è scritta con un andamento frizzante, quasi be-bop; la seconda parte, quella ambientata in Italia, assomiglia più alla musica di una funeral band di New Orleans.

Quanto e cosa hai imparato da loro?

Ho imparato che se uno ha una passione totalizzante può morirne. Cioè, che in realtà non conta quanto tempo si vive, ma che cosa si fa nel tempo che ci è dato. Oggi sappiamo che non serve bruciarsi il fisico con la droga per essere un grande artista. In definitiva Charlie Parker è stato uno dei maggiori musicisti del Novecento nonostante si drogasse, non perché si drogava. Tuttavia, questa storia, al di là dell’ingordigia di vita, assunta anche sotto forma di stupefacenti, fa capire che per fare davvero una cosa che ci piace dobbiamo essere disposti anche a morire.

Quanto ti appartiene la musica?

La musica è stata per me un carburante fondamentale durante tutti gli anni della mia giovinezza. Era in parte elettrizzante e in parte consolatoria. Poi ne ho apprezzato la sua intrinseca meraviglia, soprattutto appassionandomi al jazz. Ma oggi non ho più quella frenesia di ascoltare musica.

A chi storce il naso quando sente parlare di jazz dicendo che “non lo capisce” cosa diresti?

Non posso dare consigli in questo senso. Potrei soltanto dire che non sanno cosa si perdono. Per me il jazz è divertente, stimolante, completo e mi soddisfa ascoltarlo. E oggi il jazz è ormai ampiamente storicizzato, per cui un pezzo di Glenn Miller è molto diverso da uno di Coltrane e di Miles Davis o da un altro di Jarrett.

Cosa pensi della musica contemporanea?

Attualmente esistono tante musiche che stanno sotto l’ombrello del jazz ma sono molto differenti tra loro. Non ho pregiudizi nei confronti di nessuna musica.

 

Intervista di: Elena Torre

Foto: Marzia Maestri

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