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Conosciamo meglio i Pupi di Surfaro la band siciliana capitanata da Totò Nocera

I Pupi di Surfaro nascono un decennio fa, spontaneamente, come i fiori di campo. Per la voglia di divertirsi, di suonare. Con la particolare intenzione di riscoprire la musica popolare siciliana e del sud Italia. Di scoprire le radici del folk. Subito, ci si rende conto, che il progetto è molto più complesso di una semplice rispolveratina di vecchie canzoni per far divertire e ballare la gente. L’impegno sociale, storico e politico è sempre stato imprescindibile nel percorso artistico della band. La sperimentazione, la chiave del progetto. Nel 2010 partecipano all’XI Festival della Nuova Canzone Siciliana. Vengono subito apprezzati dal pubblico e dagli addetti ai lavori. Aprono i concerti dei Modena City Ramblers in Sicilia. Suonano sui palchi del Taranta Sicily Fest, Forum Antimafia a Cinisi, Maggio Sermonetano, BasulaFest, Carovana Antimafia, MedFest, Festival dello Scorpione a Taranto, Milano Expò, Milano Ex Polis… Da anni sono sempre in giro a portare la loro musica in lungo e in largo per l’Italia, riscuotendo sempre consensi e successo. Nel 2013 sono semifinalisti a “Musicultura”. Nel 2014 incontrano Daniele Grasso e comincia la proficua collaborazione con l’etichetta DCave, che porterà alla luce il disco “Suttaterra”. Il produttore e musicista catanese dà una spinta ed un’impronta decisiva per l’evoluzione artistica e professionale della band. Con “Cantu d’amuri” vincono Il premio “Musica contro le Mafie”. Sono selezionati al “Premio Tenco 2014”. Nel giugno 2016 producono, con Aldo Giordano, il nuovo singolo “Li me’ paroli”. In autunno saranno finalisti al “Premio Fabrizio De Andrè” e al “Tour Music Fest”. Hanno vinto il “Premio Andrea Parodi”.

Band: Totò Nocera (voce e percussioni), Peppe Sferrazza (basso), Pietro Amico (batteria).

Grafica Divina

Noi li abbiamo incontrati ed ecco cosa ci hanno raccontato 😉

Quali sono gli ingredienti per scegliere un singolo?
Un singolo è un brano che deve fare breccia. Colpire e affondare. È una sfida interessante per noi musicisti. In fondo noi facciamo le canzoni per il pubblico. C’è stata la fase del nostro percorso umano ed artistico in cui ci raccontavamo che la musica era solo per noi. L’arte ci unisce alle persone. Per noi, la scelta di un singolo rappresenta un passaggio molto delicato. Perché il singolo deve essere un gancio. Deve essere un brano che rappresenta il nostro percorso artistico fino a quel momento. Un brano portatore di tutti i valori, tutte le istanze, dichiarate e nascoste, dell’intero album. Ma un singolo deve arrivare al pubblico in maniera diretta, immediata. Potremmo dire che dovrebbe essere più vicino al pubblico, più per i gusti del pubblico. Ma non basterebbe. Perché il singolo deve essere “il nostro singolo”. È il brano che, tra gli altri brani, più ci rappresenta e, insieme, più è capace di arrivare ad un pubblico, il più trasversale possibile.

Cosa non deve mai mancare in un brano che ascoltate e in uno che scrivete?
Personalità. Un brano musicale deve raccontare “una” storia, e non “tutte” le storie. Un brano, che vogliamo ascoltare o che vogliamo scrivere, deve avere la capacità di raccontare la storia di chi l’ha scritto. Solo così ci può emozionare e può far emozionare chi lo ascolta.

Coraggio. La sperimentazione, la voglia di rinnegare se stessi, di superare i propri limiti. Varcare i confini del consueto, della normalità.

Sensibilità. La capacità di interpretare le emozioni e le intenzioni, nel delicato equilibrio tra detto e non detto, chiaro e scuro, dichiarato e nascosto.

Quali sono i vostri modelli musicali?
Difficile. Potremmo rispondere in maniera vaga, perché infinita può essere la lista dei modelli da cui traiamo ispirazione, a vari livelli. Dai grandi maestri che hanno segnato la storia della musica e la nostra, alle infinite opportunità che la vita ci offre, per la nostra capacità di trarre insegnamento anche dal più piccolo, dal più stravagante, dal più imprevedibile portatore di piccole e grandi saggezze.

Ma vogliamo citare, tra tutti, Rosa Balistreri, per la passione e la rabbia. Fabrizio De André, per l’intelligenza e la sensibilità. Daniele Grasso, perché ci ha insegnato la difficile arte della sperimentazione e la ricerca.

Quali suggestioni contiene il tuo ultimo lavoro discografico “Nemo Profeta”?

“Nemo Profeta” è un concetto semplice e complesso. Coerente e contraddittorio. Racconta dell’impossibilità della verità assoluta. E racconta le infinitesime verità della vita della gente del nostro tempo. Verità false. Verità tradite. Verità raccontate.

“Nemo Profeta” non mira alla testa. Ma vuole colpire al cuore, per emozionare. E ancora più giù, allo stomaco, per sconvolgere e mettere in subbuglio. E ancora più giù… E ancora più giù, a scavare, sottoterra, nel buio delle passioni recondite e ancestrali.

Secondo voi, quali sono stati i punti di forza che vi hanno permesso di vincere il Tour Music Fest e di arrivare in finale al  “Premio Fabrizio De André”?

Non dimentichiamo che abbiamo vinto anche il Premio Andrea Parodi. Sono tre premi importanti, che hanno veramente poco in comune. L’uno è un premio di world music, l’altro ha un indirizzo più rock di respiro internazionale e l’ultimo più cantautorale.

I nostri punti di forza sono, fondamentalmente, due. Oltre alla qualità imprescindibile del progetto. La trasversalità. Pur essendo un prodotto con un forte carattere e una spiccata personalità, ha una tale complessità e, allo stesso tempo, coerenza, da essere riuscito a convincere le giurie di contesti musicali così lontani tra loro. Ma, probabilmente, il nostro punto di forza principale è l’innovazione. Il nostro è un progetto fresco, nuovo, rivoluzionario. Senza false modestie, crediamo che il panorama musicale italiano, in questo particolare momento storico, abbia veramente bisogno di un prodotto innovativo come il nostro.

Che rapporto avete con il pubblico che assiste ai vostri concerti?
Il rapporto col pubblico è centrale nel nostro impegno artistico. Facciamo musica, che è stata definita sociale. Perciò, proprio la socialità è il fulcro di tutto il nostro progetto. Parliamo della gente. Raccontiamo la storia vista dagli occhi della gente e vissuta dalla gente semplice, del popolo. Facciamo musica popolare. Non potremmo fare a meno del pubblico. I nostri spettacoli sono sempre molto intensi, trascinanti. Il pubblico vive con passione ed entusiasmo le emozioni che noi riusciamo a trasmettere con la nostra musica, col nostro grande trasporto. La gioia, la rabbia, l’amore, lo sdegno. Il pubblico balla, ascolta, ride e piange, con noi.

Come si racconta il presente?
Vivendo nel presente. Vivendo intensamente il nostro tempo. Visto con occhi lucidi e appassionati. Raccontato con voce roca e provata.

Noi nasciamo dal folk tradizionale. La musica quella vera, fatta di pietra e zolfo, terra e fuoco. Quando la musica e il canto erano una necessità e non un vezzo. Del folk abbiamo rinunciato alla forma. Il folk ha bisogno di essere rinnovato per essere vivo. Per raccontare il presente abbiamo cercato uno stile moderno, un linguaggio contemporaneo.

Spesso ci chiedono perché scriviamo prevalentemente in dialetto e se non pensiamo che possa rappresentare un limite. Crediamo che il dialetto abbia delle possibilità espressive e poetiche che una lingua ufficiale non può avere. Crediamo che l’italiano ci limiterebbe molto più del dialetto. Se volessimo scrivere libri di saggistica, li scriveremmo in italiano. Ma per raccontare la vita vera del nostro tempo, il dialetto ci offre possibilità sconfinate, piene di sfumature, di accenti, di acciaccature, molto più vicini alla nostra concezione della musica.

Cosa vorresti per la vostra musica?

Vorremo che fosse la musica della gente. E vorremmo che la gente fosse meno superficiale nell’ascolto. Che la nostra musica riuscisse ad emozionare quanta più gente possibile. E che la gente preferisse le emozioni alle consuetudini. Vorremmo che la nostra musica fosse acclamata dalla gente? No. Vorremmo, semplicemente, essere riconosciuti dalla gente.

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