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Ospite del nostro spazio interviste il Dr. Pim van Lommel

Incontriamo il Dr. Pim van Lommel autore di “Coscienza oltre la vita. La scienza delle esperienze di premorte” per approfondire gli interessanti temi affrontati nel suo ultimo libro edito da Amrita Edizioni

Nel tempo che ha dedicato al suo lavoro di medico e alle sue ricerche, c’è qualcosa che l’ha particolarmente colpito e che l’ha spinto ad approfondire gli studi sulla NDE?

Grafica Divina

Com’è cominciato il mio interesse per le NDE? Nel 1969, mentre ero di turno come interno all’ospedale, nell’unità coronarica riuscirono a rianimare un paziente con la defibrillazione elettrica. All’epoca era una cosa nuova, entusiasmante, per tutti noi; perlopiù non ci rendiamo conto, oggi, che fino al 1967, 50 anni fa, tutti i pazienti con un arresto cardiaco morivano perché non c’erano ancora le moderne tecniche di rianimazione, come la defibrillazione e la compressione del torace dall’esterno.

Quel paziente in particolare riprese conoscenza dopo circa 4 minuti di incoscienza, e noi, il team dei rianimatori, ne fummo estremamente felici, ovviamente. Il paziente, invece, era alquanto seccato: mi raccontò di aver attraversato un tunnel, di aver visto una luce e dei colori meravigliosi, e di aver ascoltato della musica… Un evento che non ho mai dimenticato, anche se all’epoca non sapevo cosa farne, e non ne feci nulla.

All’epoca non sapevo neppure che di quelle esperienze si fosse parlato in molte culture e religioni, e in tutte le epoche storiche.

Solo diversi anni dopo, nel 1975, Raymond Moody descrisse per primo le cosiddette “esperienze di premorte” o di “quasi morte”, e solo nel 1986 lessi qualcosa sull’argomento, nel libro di George Ritchie Ritorno dall’aldilà, in cui egli raccontava ciò che gli era accaduto nei 9 minuti della sua morte clinica nel 1943, quando ancora studiava medicina. Fu dopo aver letto questo suo libro che cominciai a intervistare i miei pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco: con mia grande sorpresa, 12 sui 50 intervistati nel giro di 2 anni mi raccontarono una NDE.

Tutto è cominciato, per me, dalla curiosità scientifica, perché in base ai concetti attuali della medicina non è possibile avere percezioni coscienti durante un arresto cardiaco, in assenza di circolazione sanguigna e respiro! L’ambiente universitario in cui ero cresciuto mi aveva insegnato che la coscienza era ovviamente il prodotto di un cervello funzionante, e fino a quel momento avevo sempre preso per incontrovertibile questa verità, ma il confronto con il fenomeno delle NDE mi fece sorgere parecchi interrogativi fondamentali: come e perché si produce un’esperienza di NDE? Come si manifesta il contenuto di una NDE? E perché, in seguito, la vita del paziente cambia così radicalmente? La maggior parte delle risposte disponibili mi parevano incomplete, errate o infondate, e quindi per me erano inaccettabili. Così nel 1988 demmo inizio ad uno studio longitudinale su 344 pazienti successivi sopravvissuti ad un arresto cardiaco in 10 ospedali olandesi allo scopo di indagare sulla frequenza, le cause e i contenuti delle NDE, e la nostra ricerca venne pubblicata da The Lancet nel dicembre del 2001. Volevamo scoprire se ci fosse una spiegazione psicologica, farmacologica, fisiologica o demografica del perché certe persone esperissero stati di coscienza acuiti durante un arresto cardiaco. Preparammo una breve intervista standard da rivolgere entro pochi giorni dalla rianimazione ai pazienti che si erano ripresi a sufficienza, e chiedemmo loro se ricordassero qualcosa – e in tal caso, che cosa – del periodo trascorso in stato di incoscienza. Scegliemmo di studiare questi pazienti perché l’arresto cardiaco, altrimenti detto “morte clinica”, è una di quelle situazioni potenzialmente mortali che sono molto ben descritte in medicina. La definizione di morte clinica, nel nostro studio, venne usata per indicare quel periodo di incoscienza causato dall’assenza di ossigeno nel cervello quando cessano la circolazione sanguigna e la respirazione durante l’arresto cardiaco nei pazienti con un infarto acuto del miocardio, pazienti destinati a morte certa per danni irreversibili al cervello se non si inizia la rianimazione cardio-polmonare entro 5-10 minuti. Essi rappresentano il modello più simile al processo di morte.

Scoprimmo che 282 pazienti (l’82%) non aveva alcun ricordo del periodo trascorso in incoscienza, mentre altri 62 (il 18%) riferirono alcuni ricordi. Che cosa poteva distinguere la piccola percentuale di pazienti dotati di ricordi da quelli che ne erano privi?

Scoprimmo che né la durata dell’arresto cadiaco (2 minuti o 8 minuti), né la durata del periodo di incoscienza (5 minuti oi 3 settimane di coma), né il bisogno di essere intubati (in rianimazioni cardio-polmonari complesse), né che l’arresto cadiaco fosse stato indotto da una stimolazione elettrofisiologica (EPS) influiva sulla frequenza delle NDE. La stessa cosa valeva anche per il grado di anossia (ovvero la mancanza di ossigeno nel cervello), per cui dovemmo escludere una spiegazione fisiologica delle NDE. Non riscontrammo neppure un rapporto fra la frequenza delle NDE e i farmaci somministrati, o il fatto di aver avuto paura della morte prima dell’arresto cardiaco, o di aver già sentito parlare delle NDE; e neppure rilevammo alcun rapporto con il sesso del paziente, la sua religione o il suo grado di istruzione.

Facemmo anche uno studio longitudinale basato su interviste registrate fra i sopravvissuti che avevano avuto una NDE, a 2 e 8 anni dall’arresto cardiaco, con un analogo gruppo di controllo formato da sopravvissuti ad arresto cardiaco che però non avevano riferito di una NDE, con l’intento di scoprire se la trasformazione che aveva fatto seguito all’arresto cardiaco fosse dovuta all’arresto stesso o a una NDE. Era la prima volta che questo parametro veniva esplorato in uno studio longitudinale. Il risultato ci mostrò che solo nei pazienti con una NDE si poteva osservare una trasformazione: profondi cambiamenti interiori nel modo di vedere la vita, perdita della paura della morte e una più acuta sensibilità intuitiva.

 

Cosa possiamo affermare con certezza su questo argomento?

Nella scienza non c’è mai una certezza assoluta, ma da quando sono stati pubblicati diversi studi longitudinali sulle NDE dei sopravvissuti ad arresto cardiaco, studi che sono giunti a conclusioni e risultati che ci colpiscono per la loro somiglianza, il fenomeno delle NDE non può più dunque essere ignorato dal punto di vista scientifico. Si tratta di esperienze autentiche, che non possono semplicemente essere ricondotte all’immaginazione, alla paura della morte, alle allucinazioni, alle psicosi, all’uso di medicinali o alla mancanza di ossigeno; e chi le esperisce durante i pochi minuti di arresto cardiaco poi appare cambiato in modo permanente. Secondo tali studi, l’attuale punto di vista materialistico circa la natura della relazione fra cervello e coscienza, quello a cui si attiene la maggior parte dei medici, dei filosofi e degli psicologi, è troppo ristretto per rendere conto di un fenomeno del genere.

Il materialismo scientifico parte soprattutto da una realtà fondata esclusivamente su dati fisicamente osservabili, ma dovremmo sapere che al di là della cosiddetta osservazione oggettiva, o esterna, esistono aspetti della coscienza che sono soggettivi, non osservabili e non dimostrabili, come i pensieri, i sentimenti, l’ispirazione e l’intuito.

Possiamo solo misurare i correlati neurali, e non la coscienza in sé. Nessuno ha mai trovato la prova che i neuroni e le reti neuronali producano l’essenza soggettiva dei nostri pensieri e sentimenti. Fare della coscienza non locale (ossia che trascende il tempo e lo spazio) – quindi ubiqua – un caso scientifico può contribuire a far sorgere nuove idee sul rapporto coscienza-cervello. Le ricerche sulle NDE mettono in discussione il paradigma meramente materialistico della scienza, per cui sembrano essere importanti rispetto alle idee che nutriamo sulle relazioni tra mente e cervello e mente e corpo. Ѐ anche evidente che lo sono per il nostro concetto di vita e di morte, perché si giunge alla quasi inevitabile conclusione che nel momento della morte fisica si continua ad esperire la coscienza in un’altra dimensione, in cui passato presente e futuro sono contenuti; ma qui non abbiamo prove scientifiche, giacché i pazienti con le NDE non sono morti davvero, dal momento che sono tornati.

Quello che è scientificamente provato, invece, è che durante la loro NDE hanno esperito una forma di coscienza più acuta, e questo indipendentemente dall’avere un cervello funzionante, giacché erano scomparse tutte le funzioni cerebrali.

Dunque, senza un corpo e senza un cervello in funzione, possiamo ancora avere esperienze coscienti, siamo ancora esseri coscienti.

In base alla ricerca scientifica sulle NDE, non si può non giungere alla conclusione che la coscienza sia sempre esistita e continui ad esistere indipendentemente dal corpo; che essa non abbia né inizio né fine è ormai oltre ogni ragionevole dubbio.

La nostra coscienza acuita, o potenziata, non risiede nel cervello e non si limita ad esso, perché è coscienza non-locale; e il cervello svolge funzione di facilitatore, non di produttore, dell’esperienza di coscienza.

 

Esiste un luogo in cui fede e scienza si incontrano?

Per me la ricerca scientifica sulle NDE nei sopravvissuti ad un arresto cardiaco non ha mai avuto niente a che fare con la fede. Le recenti ricerche in materia sembrano essere fonte di nuove intuizioni quanto alla possibilità che la coscienza continui dopo la morte fisica, ma una NDE è anche, a quanto pare, la riscoperta personale di una conoscenza che, pur essendo antica e presente trasversalmente in tutte le tradizioni, pare essere stata dimenticata.

in passato venivano chiamate in molti modi diversi, come esperienze “di visione”, o “religiose”, o “di luce” o “mistiche”, e nelle culture antiche se ne parlava come di un viaggio nel “mondo di sotto”. Le narrazioni di queste esperienze, spesso causate da situazioni a rischio di morte come dal semi-affogamento, l’asfissia, lo sfinimento e la febbre alta, hanno prevalso in epoche e culture diverse. Oggi, perlopiù, le chiameremmo NDE.

Quindi non si tratta di qualcosa che abbia avuto luogo solo negli ultimi 30 anni, sebbene sia aumentato di molto l’interesse per questo fenomeno dalla pubblicazione del libro di Moody La vita oltre la vita nel 1975. Per me personalmente, è stato sorprendente scoprire così tante esperienze identiche lungo il corso della storia, trasversalmente a culture e religioni diverse, esperienze che da sempre hanno influenzato pesantemente il concetto di morte e quello della possibilità di continuità della coscienza dopo la morte fisica. In ogni epoca e cultura ci sono state persone convinte che l’essenza dell’uomo, di solito chiamata anima, continui a vivere dopo la morte del corpo.

 

Come hanno accolto i suoi colleghi le evidenze scientifiche entrate a far parte delle pubblicazioni?

Con reazioni e commenti diversi. C’è chi ha provato interesse, essendo aperto a un approccio nuovo al rapporto tra coscienza e cervello, soprattutto durante l’arresto cardiaco, dopo che la circolazione e la respirazione sono cessate. Altri non se ne sono interessati, e una minoranza non ha proprio voluto né sentirne parlare né leggere i risultati di queste ricerche: questo è quello che considero un approccio non scientifico, perché per me la scienza è interrogarsi con mente aperta. La scienza dovrebbe cercare di spiegare i nuovi misteri invece di rimanere aggrappata a vecchi concetti.

La cosa sorprendente è che oggi ci sono ancora moltissimi medici che non hanno mai sentito parlare delle NDE, ed è per questo che ancora “credono” che la morte sia la fine dell’esistenza e della coscienza.

 

Che cosa secondo lei dovrebbe cambiare nell’atteggiamento della scienza e della medicina perché possano davvero definirsi moderne?

Quattro studi longitudinali progettati in modo identico, ossia il nostro studio olandese (il solo corredato di analisi statistica), uno statunitense e due inglesi, hanno riscontrato quasi la stessa percentuale di NDE su un totale di 562 pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco, e tutti gli autori hanno concluso che nessun modello fisiologico o psicologico può, da solo, spiegare tutti gli elementi che queste NDE hanno in comune. Scrivono che il paradossale prodursi di una consapevolezza più acuta, lucida e di processi logici di pensiero durante un periodo in cui non circola più sangue nel cervello fa sorgere particolari perplessità circa l’attuale punto di vista sulla natura della coscienza e le sue relazioni con le funzioni cerebrali.

Il fatto che durante la morte clinica possano aver luogo dei processi percettivi e sensoriali complessi e di grande chiarezza sfida il concetto che la coscienza sia localizzata esclusivamente nel cervello.

I dati raccolti da diverse ricerche sulle NDE, come percezioni veridiche durante una esperienza extracorporea (OBE, ossia “out-of-body experience”, n.d.t.) suggeriscono inoltre che le NDE si manifestano proprio durante il periodo di incoscienza: una conclusione sorprendente, perché, quando il cervello non funziona al punto che il paziente è in coma profondo, le strutture cerebrali soggiacenti all’esperienza soggettiva e alla memoria devono essere gravemente disfunzionali.

Esperienze complesse come quelle riportate nelle NDE non dovrebbero manifestarsi, né potrebbero essere ricordate: si tratta di pazienti che dovrebbero essere privi di esperienze soggettive in assoluto. Se ci si attiene al pensiero scientifico dominate, se “crediamo” che la coscienza sia solo l’effetto collaterale di un cervello funzionante, è praticamente impossibile spiegare le NDE. Il fatto che vengano riferite esperienze lucide vissute coscientemente mentre l’attività cerebrale è cessata si concilia difficilmente con le attuali opinioni della medicina.

Per cui, pur in mancanza di prove a favore di alcuna altra teoria sulle NDE, occorre rimettere in discussione il concetto fin qui preso per buono (ma mai dimostrato scientificamente) secondo il quale la coscienza e i ricordi sono prodotti da consistenti gruppi di neuroni e quindi sarebbero localizzati nel cervello. Come potremmo, durante la morte clinica, esperire una coscienza lucida al di fuori dal nostro corpo, quando il cervello non funziona più e l’EEG è piatto? Inoltre, persino i ciechi hanno descritto percezioni veridiche (poi verificate) durante le loro esperienze extracorporee nel corso di una NDE. Lo studio scientifico delle NDE ci spinge ai limiti dei concetti della medicina e della neurofisiologia circa la portata della coscienza umana e la relazione mente-cervello.

Le ricerche sulle NDE mettono soltanto in discussione il paradigma del materialismo scientifico.

Chi non cambia mai idea perché non riesce ad accettare concetti nuovi, di rado impara qualcosa. Abbiamo un disperato bisogno di un cambiamento radicale di paradigma, nella scienza. Credo e spero che in un prossimo futuro la scienza moderna includa la ricerca empirica su esperienze soggettive insolite che possono insorgere nella coscienza, e che venga accolto il concetto di non località, così da comprendere che siamo tutti interconnessi tra noi e con il nostro pianeta in pericolo.

 

La fisica quantistica è in grado di venire in aiuto nell’esplorazione di temi così complessi?

La fisica quantistica ci fornisce un’utile analogia (non-località, entanglement, inter-connessione istantanea al di là di tempo e spazio), ma non spiega le cause e i contenuti delle NDE. In Coscienza oltre la vita, da poco uscito in Italia, un best seller da più di 250.000 copie, ho scritto che se ci basiamo sugli studi longitudinali sulle NDE e le recenti scoperte delle ricerche neurofisiologiche, oltre che sull’analogia della fisica quantistica, la nostra coscienza non può essere localizzata in un dato tempo o spazio. Perciò è detta “non-locale”, ossia al di là dello spazio e del tempo.

Leggi la recensione di “Coscienza oltre la vita. La scienza delle esperienze di premorte”

 

Intervista di: Cinzia Ciarmatori

Foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pim_van_Lommel.JPG

 

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